I Corpi Minori del Sistema Solare      -     Le Comete


Nascita e morte delle Comete

I magazzini delle Comete

Il dato storico più facilmente rilevabile a proposito delle comete è, senza dubbio, tutta quella congerie di superstizioni e credenze popolari che ne facevano minacciosi segni celesti di sventura, situazione nella quale certamente giocava un ruolo fondamentale il carattere decisamente anomalo di questi fenomeni celesti.
A differenza dei pianeti, facilmente identificati sulla sfera celeste, per le comete si trattava di apparizioni improvvise ed imprevedibili, apparentemente al di fuori di ogni possibile regola: Galileo stesso, nel 1623, le considerava "apparenze prodotte dai raggi solari".
La svolta decisiva fu impressa da Newton e Halley alla fine del XVII secolo allorchè, attraverso lo studio dettagliato delle orbite di alcune comete, giunsero alla conclusione che tali orbite erano ellittiche, dunque paragonabili ai moti periodici dei pianeti.   Questo significava che per alcune di esse erano ipotizzabili precedenti passaggi (confermati dall'analisi storica) e prevedibili future apparizioni (puntualmente avvenute).
Ormai a pieno titolo anche le comete entravano a far parte del gruppo di corpi gravitanti attorno al Sole con orbite perfettamente descritte dalle leggi di Keplero.
Lo studio analitico delle orbite delle comete suggerì subito, oltre al fatto di essere caratterizzate da un'elevata eccentricità orbitale (il che significa orbite fortemente ellittiche), la possibilità di operare una prima classificazione di questi oggetti in base al valore del periodo orbitale.  Si identificarono così le comete a lungo periodo, caratterizzate da orbite con periodi superiori a 200 anni, e le comete a corto periodo, i cui ritorni al perielio erano più frequenti e, comunque, inferiori a 200 anni.
Il gruppo più numeroso è rappresentato dalle comete a lungo periodo, che costituiscono gran parte (84%) delle comete con orbite conosciute.  Esse entrano nella zona planetaria del Sistema Solare con qualsiasi angolazione, inclinazione casuale rispetto all'eclittica, e circa il 50% è caratterizzato da rivoluzione retrograda.
Pur con l'estrema limitatezza dei dati a disposizione (una ventina di comete a lungo periodo delle quali erano note le orbite originarie), nel 1950 J. H. Oort presentò uno studio sulla provenienza delle comete: oggi, anche se con alcune correzioni, il quadro tracciato dall'astronomo olandese non è stato sostanzialmente modificato.
Partendo dallosservazione della casualità delle caratteristiche orbitali, Oort concluse che la zona di provenienza dovesse essere una nube sferica (la NUBE DI OORT, appunto); analizzando poi le distanze degli afeli delle comete a lui note nel 1950 determinò il raggio del guscio di maggiore densità di questa nube, quantificandolo in 40.000 U.A.
Tale ipotesi è confermata anche dalle più recenti osservazioni: le orbite delle nuove comete indicano per tutte una provenienza da questa Nube, il cui raggio viene oggi stimato in oltre 50.000 U.A.  Attualmente si distinguono nella Nube di Oort due differenti regioni chiamate rispettivamente Nube Esterna e Nube Interna.
La Nube Esterna è più o meno sferica e si estende a partire all'incirca da 20.000 U.A.: la sua popolazione è stimata in 2x1012 oggetti, circa il 40% della popolazione originaria.
La Nube Interna si stima contenga 2x1012-1013 comete; la sua localizzazione è tra 3.000 e 20.000 U.A. e, a differenza di quella Esterna, non avrebbe una forma sferica, ma più schiacciata, a forma di toro.
L'ipotesi iniziale di Oort prevedeva che le comete potessero essersi formate nella Fascia asteroidale ed in seguito allontanate dal Sistema Solare dall'azione gravitazionale di Giove.  Ciò avrebbe richiesto la formazione di un'enorme massa di comete in quanto, statisticamente, quelle espulse definitivamente dal Sistema Solare avrebbero dovuto essere molte di più di quelle rimaste nella Nube di Oort.
Gioca a sfavore di questa ipotesi anche una valutazione della temperatura che doveva prevalere vicino a Giove in quanto porterebbe ad escludere la formazione di molecole più complesse di quella dell'acqua.
Secondo Cameron (1976) le comete si sarebbero formate direttamente nella Nube di Oort; a grandi distanze dal Sole, infatti, il gas in via di collasso della nebulosa solare primordiale non avrebbe avuto la densità sufficiente da permettere una aggregazione in corpi piuttosto grandi, ecco dunque che tale aggregazione si sarebbe arrestata dando origine ai nuclei cometari.  Lo stesso Cameron, però, suggerisce un possibile meccanismo alternativo: esso prevede che la nebulosa iniziale fosse frazionata, vale a dire costituita da un frammento centrale più grande (che poi darà origine al Sole e al disco protoplanetario) e da frammenti di dimensioni minori (che avrebbero in tal modo originato delle "nebulose cometarie") orbitanti attorno ad esso.  Sarebbero queste nebulose (a forma di disco) i luoghi di formazione delle comete, ed è da queste nebulose orbitanti intorno al Sole che verrebbero estratte, attraverso i meccanismi perturbativi descritti più avanti, le comete a lungo periodo (Figura 10 - Cameron, L'origine e l'evoluzione del Sistema Solare, pag. 30).

Figura 10 - Ipotesi di Cameron

Figura 10
Ipotesi di Cameron sulla formazione delle comete:
A) frammenti di nebulosa originaria orbitanti intorno al frammento principale
B) fase di addensamento (formazione di dischi)
C) situazione dopo la "pulizia" operata dal vento T-Tauri.

Un'altra ipotesi (Fernandez e Ip, 1983) lega la formazione della Nube di Oort all'aggregazione più lenta di Urano e Nettuno rispetto agli altri pianeti.   Nella zona di formazione di questi pianeti vi era una elevata disponibilità di planetesimi ed il meccanismo di aggregazione era caratterizzato da una bassa efficienza a causa dell'assenza di gas (situazione ben diversa da quella che aveva portato alla rapidissima accrezione di Giove e, successivamente, di Saturno).  Questi due fattori avrebbero fatto sì che i planetesimi potessero risentire degli effetti gravitazionali di Urano e Nettuno (anche se di dimensioni inferiori alle attuali) a tal punto da essere lanciati su orbite già paragonabili a quelle dei corpi costituenti la Nube di Oort.
Si può comunque affermare che la Nube Esterna di Oort segna il confine del Sistema Solare ed è plausibile pensare che essa possa estendersi fino a coprire circa 1/3 della distanza da Proxima Centauri, vale a dire circa 80.000 U.A. 
E' inevitabile che a queste enormi distanze dal Sole le comete possano facilmente essere perturbate nel loro moto.  I due fattori fondamentalmente responsabili della perturbazione del moto sono:
  1. Il passaggio ravvicinato accanto al Sole di un'altra stella (evento che si verifica con frequenze tipiche di alcuni milioni di anni);
  2. Forza mareale della Via Lattea (evidenziata dalla tendenza delle nuove comete ad evitare il piano galattico ed i suoi poli).
Il moto del Sole nella Galassia, infatti, è caratterizzato anche da una componente verticale attraverso il disco: nel tempo in cui il Sole effettua una rotazione completa intorno al centro galattico (T~3x108 anni) esso compie quattro o cinque oscillazioni sopra e sotto il piano galattico (Gratton, 1978), e questi passaggi, con una periodicità di circa 30 milioni di anni, portano una leggera perturbazione nella Nube.  Per inciso è proprio di tale entità la periodicità che si tenta di spiegare ricorrendo all'ipotesi-Nemesi in merito alle periodiche estinzioni di massa (periodicità per altro ancora tutta da confermare) che hanno caratterizzato l'evoluzione biologica sul nostro pianeta e alle quali si fa sempre riferimento parlando del rischio di impatto di corpi celesti con la Terra.
Questo "disturbo" della situazione dinamica delle comete può avere conseguenze tra loro opposte: o la cometa viene spostata su un'orbita iperbolica, dunque viene slegata gravitazionalmente dal Sole ed espulsa dal Sistema Solare, oppure viene sospinta verso la zona dei pianeti dove potrà di nuovo subire profonde modifiche orbitali.
Nello stesso periodo in cui Oort avanzava la sua teoria, vi era chi ipotizzava l'esistenza di un grande anello di detriti primordiali oltre l'orbita di Nettuno, una sorta di "anello saturniano" che cinge il Sistema Solare, costituito da detriti che non avevano potuto condensarsi in grossi corpi: la teoria proposta nel 1951 da G. Kuiper (da cui la definizione di KUIPER BELT) e ancora prima, nel 1949, da K.E. Edgeworth, si dimostra oggi corretta anche grazie all'apporto delle osservazioni dell'H.S.T.
La Fascia di Kuiper viene attualmente localizzata tra l'orbita di Nettuno e 100 U.A., con la presenza dunque di una lacuna tra la stessa Fascia e la Nube Interna di Oort. La popolazione caratteristica della Kuiper Belt sarebbe costituita sia da oggetti molto piccoli (raggio di pochi km) che da corpi di dimensioni maggiori (50-200 km).
La scoperta di questi corpi è praticamente preclusa all'osservazione da Terra, tranne, forse, per quelli di dimensioni maggiori, come dimostrano le scoperte inaugurate da D.Jewitt e J.Luu nel marzo 1992 con l'identificazione di 1992 QB1. Indispensabile, pertanto, il ricorso all'osservazione spaziale. Ed è proprio grazie alle prestazioni consentite dall'H.S.T. che si sono identificati, in orbite situate oltre quella di Nettuno, 29 oggetti il cui raggio, ipotizzando una albedo del 4%, è stato stimato in 5-10 km (Cochran et al., 1995).
Un approccio statistico basato sulle scoperte effettuate finora conduce ad ipotizzare, nella regione compresa tra 30 e 50 U.A., l'esistenza di una popolazione di ~3.5x104 oggetti tipo QB1 (vale a dire corpi con raggio compreso tra 50 e 200 km) e di una popolazione cometaria (oggetti con raggio di 1-6 km) di ~1010 elementi (Stern, 1995).
Questi oggetti sembrano confinati in un disco abbastanza sottile nei pressi del piano dell'eclittica, e questo non può che deporre a favore dell'identificazione di questa zona con il serbatoio da cui provengono le comete a corto periodo. Una ulteriore prova a favore di questa ipotesi proviene dalle integrazioni numeriche: esse hanno mostrato la stabilità dinamica per una significativa frazione degli oggetti che si sono formati nella Kuiper Belt, ma nel contempo hanno evidenziato la possibilità, in seguito a piccole instabilità gravitazionali indotte dai pianeti giganti, che questi oggetti possano rifornire adeguatamente l'attuale popolazione delle comete a corto periodo (Stern, 1995).
L'importanza di queste scoperte (Cochran et al., 1995), risiede nel fatto che è la prima volta che oggetti delle dimensioni delle comete a corto periodo vengono individuati nella loro zona di origine. Ed è anche la prima volta che si riesce ad identificare su basi osservative una regione del Sistema Solare quale origine delle comete a corto periodo. Da quanto detto appare evidente come, allo stato attuale, sia ormai considerata certa l'esistenza di un disco di materia nella periferia della zona planetaria, proprio come suggerito da Edgeworth e Kuiper negli anni '50.
Non è sempre stato così automatico il collegamento tra le comete, soprattutto quelle a corto periodo, e le regioni più periferiche del Sistema Solare (Nube di Oort o Fascia di Kuiper); si è tentato, infatti, più volte di identificare altri serbatoi più vicino al Sole, ma con risultati non sempre accettati dalla comunità scientifica. Ricordiamo a questo proposito la teoria dell'astronomo sovietico S.K. Vsekhsvyatskii che, negli anni '70, ipotizzava un'origine legata ad eruzioni vulcaniche avvenute sui pianeti maggiori o sui loro satelliti (Maffei, 1977). In quegli stessi anni Rabe ipotizzava che una possibile sorgente delle comete a corto periodo potesse essere identificata nei meccanismi di evoluzione dinamica degli asteroidi Troiani la cui somiglianza fisica con i nuclei cometari spenti aveva già portato ad ipotizzare un meccanismo inverso, vale a dire la cattura di nuclei cometari da parte di Giove.
Recenti simulazioni dinamiche (Marzari et al., 1995) hanno cercato di valutare in modo attendibile l'efficienza del meccanismo di "evaporazione" dei Troiani quale possibile sorgente delle comete a corto periodo, ma le conclusioni non sono esaustive, anche per la scarsa conoscenza dei parametri reali di questi asteroidi. Resta comunque il dato di fatto che il meccanismo evolutivo collisionale testato si è mostrato in grado di immettere una significativa frazione dei membri delle famiglie simulate in orbite cometarie caotiche.
Si sono sempre avanzati seri dubbi sul fatto che le comete a corto periodo possano aver avuto origine da quel gigantesco serbatoio di comete che è la Nube di Oort. L'analisi dei loro parametri orbitali (soprattutto il basso valore dell'inclinazione) solleva, infatti, forti perplessità sulla possibilità che un'orbita inizialmente caratterizzata da inclinazione casuale (in quanto proveniente da una nube sferica) possa essere modificata ed appiattita in modo così efficiente dalle perturbazioni planetarie.
In un recentissimo studio, A. Stern ed H. Campins (1996) identificano due possibili regioni che costituiscano il serbatoio delle comete a corto periodo:
  1. una prima regione è la zona oltre l'orbita di Nettuno, nella quale le perturbazioni dei pianeti giganti sono in grado di modificare le eccentricità delle orbite su scale di tempi comparabili all'età del Sistema Solare.  E' questa stabilità del meccanismo su lunga scala, infatti, il criterio principale di identificazione del luogo di origine per le comete a corto periodo.
  2. la seconda regione è identificabile con il lento evaporare dinamico dei Troiani, ma il meccanismo di estrazione di oggetti da questa seconda zona, però, stando alle simulazioni dinamiche cui si accennava in precedenza (Marzari et al., 1995), sembra molto meno efficiente.
Le recentissime scoperte di oggetti tipo-Halley nella Kuiper Belt (Cochran et al., 1995) e le valutazioni dinamiche sulla popolazione ivi collocata (Stern, 1995) non fanno altro che deporre a favore della prima ipotesi. L'analisi dinamica, inoltre, suggerisce che la popolazione cometaria non sia primordiale, bensì il prodotto di un processo collisionale a cascata, che ha rifornito il numero di piccoli corpi (~ 1 km) inizialmente carente. Accettando, però, per le comete a corto periodo una origine più prossima a noi della Nube di Oort non possiamo non ipotizzare per esse una composizione chimica che le possa differenziare dalle comete a lungo periodo.
Un tassello certamente da non trascurare di questo mosaico che si va componendo è proprio la recente scoperta della forte presenza di etano (C2H6) prodotta dalla zona nucleare della cometa Hyakutake, già interpretata proprio come discriminante di possibili differenziate tipologie di comete (Mumma et al., 1996).
Studi di laboratorio relativi alla possibilità di intrappolamento di gas durante la formazione di ghiaccio a temperature molto basse vengono utilizzati per simulare i meccanismi di formazione dei nuclei cometari a diverse distanze dal Sole e a tale proposito si è notato che la temperatura gioca un ruolo fondamentale sia per quanto riguarda la quantità totale dei gas sia le relative proporzioni.  Poichè la cattura di N2 è inefficiente, tutti i planetesimi formatisi allinterno di Nettuno sarebbero caratterizzati da carenza di azoto, somigliando in tal modo, per quanto riguarda i valori del rapporto C/N, ai pianeti interni.
Dall'analisi di questo rapporto, Owen e Bar-Nun (1995) traggono spunto per ipotizzare, in virtù del luogo dorigine, tre differenti tipologie cometarie:

Tipo Zona di formazione Temperatura
di formazione
Attuale collocazione C/N
I Giove - Saturno 100 K principalmente sfuggite (*) 20±10
II Urano - Nettuno 50 K Nube di Oort 20±10
III Transnettuniana 30 K Kuiper Belt 3

(*) alcune di esse nella Nube di Oort.

Per quanto riguarda la composizione chimica, i due ricercatori propongono i seguenti tratti caratteristici per le diverse tipologie delle comete:

Tipo I - mancanza di N2, CO, gas nobili e sostanze organiche volatili a causa della temperatura troppo elevata nella zona della loro formazione;
- presenza di CHON;
- possibilità che abbiano intrappolato ammoniaca ed altri composti dell'azoto.
Tipo II - piccole quantità di N2 ,CO e gas nobili;
- presenza di CHON.
Tipo III - miscuglio di N2, CO e gas nobili in proporzione solare;
- presenza di CHON.

Suggeriscono inoltre che anche il rapporto N2 / CO possa fornire indicazioni sul luogo d'origine della cometa in quanto le comete "nuove" (provenienti cioè dalla Nube di Oort) presenterebbero valori di tale rapporto sistematicamente più elevati di quelli rilevabili per le comete a corto periodo.
Tale previsione viene collegata ad un duplice meccanismo di produzione di CO: da un lato vi è una sorgente di tipo molecolare (una possibile molecola-madre può essere H2CO) caratterizzata da una produzione sostanzialmente costante, dall'altro lato una sorgente diretta, la perdita, cioè, di gas intrappolato nei ghiacci cometari, il cui rilascio è molto rapido. I ripetuti passaggi al perielio finirebbero con lo svuotare la cometa dei gas intrappolati (CO e N2), mentre la produzione molecolare rimarrebbe pressochè invariata e questo fatto comporterebbe la diminuzione del rapporto N2 / CO.
Si potrebbe, inoltre, ricondurre lelevato valore del rapporto C/N tipico dell'atmosfera della Terra e di Venere all'apporto di materiale da parte delle comete di tipo I, mentre l'apporto dei gas nobili deve necessariamente essere spiegato con le altre tipologie cometarie.
Acquista dunque importanza cruciale, tentando di ricostruire la composizione delle atmosfere planetarie originarie, la valutazione dell'apporto degli oggetti di tipo cometario attraverso il meccanismo degli impatti; sono questi eventi che hanno contribuito in modo determinante alla composizione delle atmosfere dei pianeti di tipo terrestre.   E un dato ormai accettato da tutti, infatti, che le attuali atmosfere dei pianeti di tipo terrestre non sono quelle primitive, ma, nel corso del tempo, si sono susseguite varie atmosfere la cui formazione e rimozione è stata pesantemente governata dagli episodi impattivi. Probabilmente l'unico corpo dell'intero Sistema Solare che ha trattenuto l'atmosfera originaria è Titano (Taylor, 1992), e a tale proposito si spera darà indicazioni esaurienti il modulo Huygens (parte integrante della missione Cassini) destinato a posarsi sulla superficie del satellite di Saturno nel novembre 2004.
Una delle difficoltà da superare nel tentativo di ricostruire la composizione delle atmosfere planetarie primitive è data dalla presenza di inevitabili reazioni chimiche tra i vari componenti, con la conseguente alterazione delle sostanze presenti. A questa tipologia di mutazioni sfuggono i gas nobili, e questa peculiarità li rende ottimi e attendibili indicatori per i tentativi di ricostruzione della composizione originaria. La provenienza di Argo, Krypton e Xeno è sempre stata tradizionalmente individuata nei fenomeni meteoritici, ma un problema irrisolto era rendere ragione della bassa abbondanza dello Xeno rispetto agli altri gas. La spiegazione proposta da Owen e Bar-Nun (1995) è che l'apporto imputabile alla sorgente meteorica (condriti carbonacee) sia tale da giustificare le quantità attualmente rilevabili di Xeno e, pertanto, si debba ricercare una sorgente addizionale in grado di rendere ragione della maggiore abbondanza di Argo e Krypton, sorgente che i due ricercatori identificano proprio nel contributo cometario nel periodo iniziale di intenso bombardamento.
Un aspetto estremamente importante del problema dell'apporto cometario all'attuale composizione del nostro pianeta è legato alla individuazione della provenienza dell'acqua, elemento indispensabile per lo sviluppo della vita, ma l'approfondimento di tale discorso è rimandato alla trattazione più generale del problema degli impatti di comete e asteroidi con la Terra.


Fasi evolutive finali

Dopo averne analizzato la provenienza, è naturale chiedersi quale sarà la destinazione ultima delle comete, la tappa finale del loro percorso evolutivo.
La situazione certamente meno traumatica che possiamo ipotizzare per una cometa è sicuramente quella che prevede l'esaurimento del materiale volatile di cui è costituita o l'impossibilità per i gas di abbandonare il nucleo cometario.  I ripetuti passaggi nei pressi del Sole fanno sì che il calore e l'azione del vento solare disperdano nello spazio i materiali volatili e le polveri, dando luogo in tal modo alle spettacolari apparizioni di questi corpi celesti visibili dalla Terra. La lunghezza della vita di una cometa è dunque, in questo caso, influenzata dalla quantità di materia iniziale e dal ritmo di perdita di massa, fattore, questo, strettamente legato al valore del perielio, al tempo che la cometa trascorre nei dintorni del Sole ed al numero di passaggi su quell'orbita. Una volta esaurito il materiale volatile, la cometa perderebbe la sua caratteristica essenziale trasformandosi in un corpo tipicamente asteroidale che non modificherebbe la propria orbita, ma risulterebbe difficilmente individuabile dalla Terra.
Figura 11 - Encke ed HephaistosDa un confronto di orbite cometarie con alcune orbite di asteroidi (soprattutto alcuni N.E.A.) emerge qualcosa di più di un semplice sospetto che si possa trattare di nuclei di comete a corto periodo ormai spenti catturati dall'azione perturbatrice della Terra o sospinti in questa orbita dai già citati meccanismi dinamici delle risonanze. Di questa possibilità si è già parlato a proposito dell'asteroide 4179 Toutatis e del gruppo dei Tauridi; un confronto grafico tra l'orbita della cometa Encke e quella dell'asteroide 2212 Hephaistos (un oggetto Apollo, appartenente anch'esso ai Tauridi, che, con diametro di 8.7 km, è probabilmente il maggiore degli Earth-crosser conosciuti), si può notare la effettiva somiglianza delle due orbite (Figura 11 - Pancaldi, Vagabondi del cielo, pag. 90).
Situazione analoga all'esaurimento del materiale volatile si ha anche nel momento in cui la crosta di materiale inerte sulla superficie del nucleo raggiunge un tale spessore da impedire ogni ulteriore fuoruscita di materiale volatile.
Un secondo possibile scenario per la fine di una cometa può essere quello che comporta una modifica della struttura del corpo celeste.  Con questo termine intendo un duplice fenomeno: da una parte una frammentazione limitata del nucleo cometario, dall'altra una polverizzazione totale, e di ambedue queste situazioni possiamo avere riscontri osservativi. Un esempio della frammentazione limitata del nucleo è costituito dalla Ikeya-Seki (1965), che penetrò nella corona solare passando a circa 450 mila km dalla superficie del Sole, e al suo riapparire mostrò il nucleo spezzato in due. La differenziazione dei due nuclei cometari era completa, come dimostra il fatto che le due nuove comete erano caratterizzate da periodi diversi (878 e 1055 anni).
Un secondo esempio ancora più eclatante della possibilità di frammentazione del nucleo di una cometa è rappresentato dalla cometa West (1975), il cui nucleo si suddivise in 4 parti dando luogo così ad altrettante nuove comete.
L'ultimo evento di questo tipo è avvenuto verso la metà di novembre 1995 ed ha riguardato la cometa Schwassmann-Wachmann 3. Questa cometa era tra quelle osservate con particolare cura perchè avrebbe potuto essere un possibile obiettivo di una missione spaziale dell'ESA riguardante lo studio ravvicinato di un nucleo cometario (Missione ROSETTA in programma nel primo decennio del prossimo secolo).
Dalla osservazione della Schwassmann-Wachmann 3 (Osservatorio di Meudon) erano emersi nel settembre-ottobre 1995 alcuni dati inattesi, vale a dire una intensa produzione di molecole di ossidrile OH ed un elevato incremento di magnitudine (una luminosità circa 1000 volte maggiore del previsto).   L'osservazione effettuata con strumenti più potenti e con l'impiego del CCD (ESO 3.5 m NTT) ha messo in evidenza (12.12.1995) la frammentazione del nucleo in 3 distinte parti, alle quali se ne aggiungeva una quarta scoperta con osservazioni nel lontano IR (10 micrometri). Della frammentazione questa volta non si può incolpare Giove (come nel caso della Schoemaker-Levy), ma la causa è presumibilmente da imputare a stress termici che hanno interessato l'interno del nucleo in occasione del passaggio al perielio (settembre 1995) ad una distanza di 0.93 U.A. dal Sole. La presenza di grosse fenditure nella struttura del nucleo avrebbe consentito, nel momento di maggiore irraggiamento, l'evaporazione di una grande quantità di materiale interno e questo fenomeno avrebbe ulteriormente ingrandito le crepe scatenando in tal modo il processo disgregativo.
Il verificarsi della frammentazione del nucleo ha come inevitabili risvolti non solo la riduzione di massa del nucleo cometario con la conseguente riduzione della vita della cometa (anche se questo è certamente l'aspetto più evidente), ma anche il forte squilibrio strutturale indotto dalle fratture, responsabile di situazioni molto più catastrofiche.
E' il caso della cometa di Biela, una cometa a corto periodo (6.7 anni) scoperta nel 1826, accomunata a rilevazioni di passaggi antecedenti (rispettivamente del 1772 e del 1805) ed in seguito osservata regolarmente fino al 1845, anno in cui si verificò il fenomeno di frammentazione del nucleo in 2 parti. Le due nuove comete furono osservate nuovamente al passaggio successivo (1852), ma poi se ne perse ogni traccia. Il dato importante è che nel 1877 fu osservata una fitta pioggia meteorica (stelle cadenti), subito collegata da G. Schiaparelli con il transito della Terra in una zona molto prossima all'orbita originaria della cometa di Biela; tale evento si ripetè nel 1885 e l'interpretazione ipotizzata fu quella di una distruzione profonda del nucleo della cometa, i cui detriti si stavano disperdendo nello spazio.
Molti eventi di questo tipo sono tuttora osservabili, come si può notare dalla seguente tabella:

Nome Sciame Massimo Cometa associata
Liridi 21 Aprile Thatcher (186 1I)
Eta Acquaridi 5 Maggio Halley (1910 II)
Draconidi 26 Giugno Pons-Winnecke (1858 II)
Beta Tauridi 30 Giugno Encke (1819 I)
Capricornidi 1 Agosto 1948 n
Perseidi 12 Agosto Swiff-Tuttle (1862 III)
Draconidi 10 Ottobre Giacobini-Zinner (1933 III)
Orionidi 22 Ottobre Halley (1910 II)
Tauridi 1 Novembre Encke (1819 I)
Leonidi 16 Novembre Tempel-Tuttle (1866 I)
Andromedidi 22 Novembre Biela (1852 III)
Ursidi (UMI) 22 Dicembre Tuttle (1858 I)

La terza causa della scomparsa di una cometa può identificarsi nella modifica dell'orbita, fatto che può comportare sia la possibile espulsione dal Sistema Solare, sia l'evento più traumatico di un impatto con un altro corpo celeste (fatto non così raro come può sembrare). La presenza di piccoli crateri perfettamente allineati (ne sono stati rinvenuti su Callisto, Ganimede e sulla Luna stessa) fu inizialmente interpretata come causata dalla ricaduta di materiale a seguito di un impatto di un grosso asteroide (avvenuto in modo radente per giustificare l'asimmetria della struttura), ma si evidenziavano spesso grosse difficoltà nell'identificazione del cratere primario, le cui dimensioni, tra l'altro, avrebbero dovuto essere tutt'altro che trascurabili. L'evento Shoemaker-Levy (luglio 1994) ha, però, fatto abbandonare quest'ipotesi facendo propendere per la distruzione di nuclei cometari provocata dallazione di marea del pianeta a seguito di un passaggio ravvicinato (entro il limite di Roche).
Il calcolo del tasso di distruzione di comete da parte di Giove è stato affrontato da H.J. Melosh e P.Schenk, i quali hanno calcolato una media di un evento ogni 80 anni; hanno avanzato anche ipotesi riguardo alla Terra (un evento ogni 20 mila anni), ma in questo caso la statistica è ridotta a soli due casi rilevati sulla superficie del nostro satellite (Lamberti, 1996).
E' recente l'annuncio della scoperta di una catena di crateri da impatto anche sulla Terra, in Ciad; i crateri sono stati scoperti grazie alle immagini radar del sistema Spaceborn Imaging Radar C/X-band Syntetic Aperture Radar installato a bordo dello Shuttle Endeavour nell'aprile e nell'ottobre 1994: le immagini rivelano appunto due nuovi crateri (da confermare con analisi del terreno) presso quelli già conosciuti e chiamati Aorounga nel nord del Ciad. L'identificazione di questi segni da impatto è però ancora soggetta ad indagini e non ha ancora ottenuto una conferma definitiva, anche se vi è già chi (A. Ocampo del J.P.L. e K. Pope del Geo Eco Arc Research) ipotizza per l'evento una datazione di 360 milioni di anni fa (epoca per altro interessata da una delle grandi estinzioni di massa che hanno caratterizzato la storia del nostro pianeta) (Caprara, 1996). Permangono comunque ancora molti dubbi circa l'origine cometaria in quanto il meccanismo di distruzione mareale funziona perfettamente anche nel caso di asteroidi non compatti, formati da più corpi tenuti assieme dalla reciproca gravità; l'unica differenza potrebbe essere individuata nelle dimensioni finali degli oggetti originatisi dalla disgregazione, che, nel caso di corpi asteroidali, potrebbero essere caratterizzati da dimensioni anche notevoli, mentre per i nuclei cometari si ritiene che i frammenti debbano avere dimensioni molto ridotte (i frammenti della Shoemaker-Levy caduti su Giove avevano diametro massimo di 2-3 km).
Ma ritorniamo ad occuparci più in dettaglio dei meccanismi che possono modificare l'orbita originaria di una cometa.  Che i pianeti (soprattutto quelli di massa maggiore o più distanti dal Sole) potessero avere un ruolo importantissimo nella perturbazione delle orbite di altri corpi celesti era già stato supposto da P. S. de Laplace, il quale introdusse a questo proposito il concetto di sfera di attività, intendendo con questo termine quella sfera, concentrica al pianeta, entro la quale l'azione gravitazionale del Sole diventava inferiore a quella del pianeta stesso (il raggio della sfera di attività di un generico pianeta è dato dalla formula: RP= aP* (MP/MSol)2/5).
Anche un calcolo approssimato della formula di Laplace ci permette di osservare come i pianeti di massa maggiore non siano automaticamente quelli più influenti: nel grafico riportato in Figura 12 si può notare infatti l'importanza che riveste Nettuno grazie alla sua enorme distanza dal Sole (4.5 miliardi di km).
Figura 12 - Sfera di attività di LaplaceLa perturbazione delle orbite è sempre stato oggetto di studio e di analisi (è l'irrisolto problema degli n corpi della Meccanica Celeste); nel caso delle comete, poi, la situazione perturbativa è notevolmente aggravata dall'esigua massa di questi corpi celesti. E' evidente che quanto più una cometa si avvicinerà alla sfera di attività di un pianeta, tanto più la sua orbita originaria potrà subire sostanziali modifiche. Questo, ovviamente, non significa automaticamente trasformazione di una cometa nuova (cioè che proviene per la prima volta dalla Nube di Oort o dalla Fascia di Kuiper) in una cometa a corto periodo, talvolta può comportare, anzi, l'immissione della cometa su un'orbita iperbolica o parabolica (con la conseguente espulsione dal Sistema Solare) oppure su una orbita di collisione con il Sole o con qualche altro pianeta (ed il citato impatto della Shoemaker-Levy 9 con Giove del luglio 1994 ne è un significativo esempio).
La situazione dinamica illustrata nella Figura 13 (Maffei, I mostri del cielo, pag. 26, fig. 5) non è riferita ad alcuna cometa reale, ma mostra come dallorbita originaria la cometa si trasferisca su un'orbita differente e, conseguentemente, quella che in origine era la zona del perielio diventa, a seguito dell'azione del pianeta, l'afelio della nuova orbita.
Se questa azione perturbatrice porta la cometa all'interno della zona planetaria del Sistema Solare è inevitabile che il meccanismo descritto in precedenza si possa ripetere con altri pianeti (Giove ha ora l'influenza maggiore) e si parla in questo caso di cattura graduale. Il meccanismo appena descritto genera per ogni pianeta perturbatore una famiglia di comete, tutte caratterizzate dagli afeli nei pressi dell'orbita del pianeta: a tal proposito la Figura 14 (Maffei, I mostri del cielo, pag.27, fig. 6) mostra le orbite di alcune comete appartenenti alla famiglia di Giove.

Figura 13 - La cattura

Figura 14 - Jupiter family

Figura 13
Meccanismo di cattura di una cometa da parte di un pianeta.
Figura 14
Orbite di alcune comete della famiglia di Giove.

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